I dubbi di un pacifista di fronte all’invasione dell’Ucraina, le riflessioni sul senso della guerra, il ricordo di Alex Langer in Bosnia
La guerra in Ucraina, ma anche quelle in Siria, in Yemen, in Etiopia, Congo, Afghanistan e tutte le guerre che hanno insanguinato il mondo, interrogano le nostre coscienze, soprattutto quelle di noi pacifisti e anti-militaristi.
C’è una prima, drammatica domanda che scuote la mia coscienza: esistono guerre giuste?
Il cuore mi direbbe di no. Ogni guerra è un massacro insensato. Inoltre, chi stabilisce quando una guerra è giusta? Lo stesso Putin dichiara che la guerra contro l’Ucraina – anzi no, l’”azione militare speciale” – è giusta, per difendere i russi nel Donbass minacciati dagli ucraini. È una giustificazione simile a quella che addusse Hitler quando occupò la Cecoslovacchia nel 1938 con la scusa di tutelare i tedeschi dei Sudeti. E fu l’anticipo della seconda guerra mondiale.
Possiamo allora dire che una guerra è giusta quando la scatena uno stato democratico? Neppure. Nel 2003 gli Stati Uniti vollero a tutti i costi invadere l’Iraq per eliminare il presidente Saddam Hussein, con il pieno appoggio dei britannici e supportati da una forza internazionale di cui faceva parte anche l’Italia. Le motivazioni di quella guerra, ovvero il possesso iracheno di armi di distruzione di massa, si rivelarono poi del tutto false.
Questa posizione sulla guerra rischia però di generare una sorte di equidistanza tra le parti. Essendo la guerra insensata in sé, si può parteggiare per l’uno o l’altro dei contendenti? Si può auspicare la vittoria di uno senza il rischio così di legittimare la guerra?
La guerra ci interroga sul suo significato in sé e su quello dei miti che la accompagnano: quello della Vittoria, della Patria e dell’Eroe. Miti che hanno forgiato buona parte della letteratura mondiale da Omero in poi.
In generale, non amo la Vittoria come segno di supremazia e di forza. Il mito di Nike – la vittoria alata della mitologia greca – non mi appartiene. I Greci, popolo bellicoso come tutti quelli indoeuropei, esponevano il vessillo di Nike alla fine di ogni conflitto vittorioso e anche di competizioni sportive. Anche per questo non amo gli sport competitivi e non amo il mito olimpico della forza e della velocità. Preferisco il suo opposto, quello della lentezza, della soavità e profondità, indicato dal grande pensatore ecologista Alexander Langer.
Talvolta però la Storia ci pone di fronte a vittorie giuste e necessarie. Dal 1945 il nostro Paese ha prosperato in libertà e democrazia perché gli Alleati e i Sovietici vinsero la guerra. Se non ci fosse stata quella vittoria, l’Italia sarebbe stata probabilmente governata da Mussolini – o da qualche governante fantoccio di Hitler – per altri decenni, con lo sterminio definitivo di tutti gli ebrei, rom, disabili e dei comunisti e oppositori politici.
Certo l’Italia si è parzialmente riscattata grazie alla Resistenza. Che però ci pone un’ulteriore domanda sulla legittimità degli aiuti militari e dell’invio di armi. La Resistenza avrebbe potuto, da sola e senza il sostegno militare degli Alleati e la pressione sovietica a Est, sconfiggere l’esercito nazista?
Anche qui sorgono questioni: il supporto militare dall’esterno è rischioso. All’inizio dell’invasione russa espressi la mia perplessità sull’invio di armi all’Ucraina. Lo vedevo come un modo per prolungare la guerra e dunque i suoi terribili esiti sulla popolazione; inoltre avevo espresso la preoccupazione che poi quelle armi potessero finire nelle mani sbaglate, sia russe sia di qualche milizia violenta, contribuendo così a più feroci conseguenze.
Sono questioni laceranti per noi pacifisti. Lo furono anche per Alex Langer, quando – da parlamentare europeo – fu inviato in Bosnia nel pieno di quel terribile conflitto. E lui, uomo di pace e del dialogo, europeista e certo non un grande sostenitore dell’Alleanza Atrlantica, di fronte alle scene agghiaccianti dei morti, delle violenze e delle distruzioni, a giugno del 1995 scrisse che “Di fronte agli ultimi eventi in Bosnia non è più possibile tentennare: bisogna che l’ONU invii un cospicuo contingente supplementare, chiedendo, se del caso, l’aiuto della NATO…” (leggi la dichiarazione integrale). Pochi giorni dopo, Alex decise di porre fine alla sua vita, privando l’intera Europa dello slancio innovativo del suo pensiero.
C’è un certo ambiente culturale e politico che oggi vorrebbe non schierarsi “né con Putin, né con gli Ucraini”. Posizione che non condivido, perché si mette sullo stesso piano l’aggressore e gli aggrediti.
Ci sono dunque momenti della Storia in cui è necessario lasciare l’equidistanza. Un popolo aggredito ha il diritto di difendersi. Uno stato democratico barbaramente invaso ha il diritto di chiedere sostegno alle altre democrazie, perché non può prevalere il principio dell’aggressione militare da parte di un altro stato. Qualsiasi siano i motivi di tensione tra due stati, nulla può giustificare un massacro, neppure in risposta ad altri eccidi. Non si può lavare il sangue con altro sangue. Non nel 2022.
Nel caso dell’Ucraina, però, un intervento diretto dei paesi NATO significherebbe far precipitare il mondo in un rischioso conflitto tra potenze atomiche. Pertanto, si è scelto di sostenere l’Ucraina attraverso forniture militari e sanzioni contro Mosca. Lo stesso Putin, nel suo discorso del 9 maggio di celebrazione della vittoria del 1945, ha ribadito che mai più il mondo dovrà precipitare in una nuova guerra mondiale, che sarebbe probabilmente anche l’ultima per l’umanità.
Alcuni, incluso l’onnipresente professor Orsini auspicano una resa immediata dell’Ucraina. Certo, così si porrebbe fine al massacro. Ma a che prezzo? I messaggi deliranti inviati da Putin e Kirill, che impostano la guerra come un conflitto tra il “bene” (la Russia) e il “male” (l’Occidente) sono estremamente inquietanti. Quando si toccano le corde della mitologia patriottico-religiosa si scatenano i peggiori istinti dell’uomo.
Che cosa sarebbe accaduto se gli ucraini avessero sventolato bandiera bianca subito? Putin si sarebbe accontentato di Crimea e Donbass, oppure avrebbe preteso il governo intero dell’Ucraina, e poi della Transnistria, aggredendo la Moldavia e poi avrebbe preteso la striscia abitata da russi negli stati baltici, e così via. Nel suo delirio nazionalistico, Putin pretende di ricostruire la Grande Russia che decide le sorti anche dei paesi dell’Europa orientale.
Ma la Russia non è più una Grande Potenza, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Quest’anno la Russia avrà un PIL comparabile a quello dell’Indonesia, che certo non potrebbe “dichiarare guerra agli Stati Uniti”. La tragica verità è che, a parte Mosca e San Pietroburgo, la Russia è uno sterminato paese dove la popolazione è mediamente molto povera. E questa guerra, se supererà i tre mesi, costringerà Putin ad affamare ulteriormente il suo popolo per finanziarla.
Certo, la Russia possiede molte armi, ma non bastano per condurre una guerra su una frontiera di 500 km (solo per il Donbass) con centinaia di migliaia di uomini in campo. Ho l’impressione che l’ideologia violenta, il nazionalismo più becero, abbiano offuscato la razionalità di Putin, anche perché è da troppi anni al potere circondato da una corte accondiscendente.
Non vorrei mai la vittoria di Putin, però non tifo per la sconfitta della Russia, perché non credo che la vittoria di uno dei contendenti porti la pace. La pace si ottiene mettendo da parte i reciproci veti, frutto di nazionalismi ottusi, che non mancano neanche in terra ucraina. L’unica pace possibile è quella che si ottiene da negoziati. La pace ottenuta con le armi, è una pace fragile che porterà altre guerre.
Una sconfitta della Russia condurrebbe a una sua destabilizzazione, che, viste le dimensioni dello stato e il livello di armamenti nucleari, potrebbe essere forse più pericolosa di una sua vittoria. Temo però che la Russia si sia infilata in un vicolo cieco e che per lei arrivino tempi molto duri. Per colpa interamente propria, dei suoi governanti, che non avranno sconti di fronte al tribunale della Storia.
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